Ludovica Cantarutti, Antologia, Samuele Editore, Pordenone 2009

C’è sentore di vita, persistente ma delicato, in questa selezione di testi che attraversano più di venti anni di scrittura di Ludovica Cantarutti (dal 1976 al 1997). Un percorso in salita, senza ritorno e senza vie di fuga, dove si alternano luce e buio in una lotta senza tregua; dove la parola porta dentro, sanguinante, il peso dell’esperienza, che non fa sconti a nessuno. Non si rinuncia, infatti, alla sofferenza, che serpeggia come ombra costante tra le righe, mentre ci si chiede “quale posto ebbe il dolore/ per accrescere il cervello”.
Qui, vita si accorda con fatica, quiete, solitudine: “C’è un epitaffio senza senso/ per il mio silenzio,/ un amore incompiuto,/ un esilio sicuro”. Quella voce, inconfondibile di donna, ha il dono di incarnarsi nel corpo, nelle membra, negli arti, per emergere dal buio, dal nascondiglio segreto, per mettersi in posizione di attesa: delle stagioni, dell’incanto, del giorno che conta. Così la Poesia, a tratti carica d’angoscia, a tratti pacificata, diviene seria ragione per proseguire l’attesa: diviene essa stessa un appiglio alla vita, un “piccolo amo vermiglio”. Intanto, un vecchio signore chiamato Silenzio scandisce le pagine del libro, infonde calma, impone al lettore una atteggiamento di ascolto e comprensione, anche del vuoto lasciato nel bianco della pagina. E verso una parola che domanda disperatamente amore e insieme dona amore, in un’epoca che si estende oltre il tempo e lo spazio, che cerca di catturare gli attimi essenziali per imparare a vivere: “perdo l’ultima occasione/ quella del vagabondo/ che m’insegna a vivere/ sotto un cielo d’atmosfere”.
Verso dopo verso, la scrittura avanza come una litania, che sprigiona lentamente, con garbo, la forza necessaria nella lotta quotidiana, in quel “cantiere laborioso” che mai concede tregua a coloro che vi operano, come guerrieri scalzi. E’ la realtà che logora, chiede, strappa pezzi del nostro essere, e del nostro corpo: “Arrancando/ mi consumerò le dita a sangue./ Ma so che i miei moncherini/ varranno amore”. E allora si svela senza sorprese, senza troppo rumore, “l’arcano disaccordo”: l’amore desiderato, accolto, rifiutato, perduto… egli pesa come un macigno, toglie il respiro. La sua presenza pervade il quotidiano tra “un silenzio di battiti sospesi” e gesti di ribellione. Ma tutto la parola riesce ad armonizzare: impastando e contenendo si fa seme, origine, metamorfosi. Si fa peso muto, che piega i versi, come una pietra messa al collo di chi, ancora una volta con ostinazione, vuole essere aquilone; non avendo smesso mai, neanche per un istante, di lottare per riavere la luce.
Rossella Renzi
L’INCANTO
Le verità di pietra e di sterco
non mi stancavano,
quando ero aquilone.
Filettanti code si moltiplicavano
in ali voraci di spazio;
prendevano atmosfera
come le illusioni al monte dei pegni:
un becco di cartapesta
sceglieva azzurri nuovissimi.
Non si può sparare
agli aquiloni.
*
GENTE
Ho visto falciare papaveri
e il divenire del tempo
senza pietà
scarnificare gli sguardi:
così le donne delle mie parti
sembrano più vecchie
e dentro le rughe svogliate
nidiate di sogni
sostituite da figli
che chiedono sopravvivenza.
Sono una di loro,
gettata per il mondo
ricolma di lessico ingombrante:
bagaglio e dote
che negli specchi convessi
di una stagione ristretta
m’illudono
che non avrò mai rughe.
*
Canto la luce della falena
e il buio contorno del suo cielo
che non stupisce più nessuno.
Canto il segmento di eternità
ridotto al lumicino.
Canto gli occhi di mia figlia
pur sapendo che non vedrà
e canto ancora più della cicala ingorda
gli amori che fanno specchio
all’innocenza
e giurano che mai nulla cambierà.
Così la macchina del tempo
sconfitta all’ultima barriera
più stupita del suo merito
resta fuori dalla porta, questa sera.
*
RICORDO
Ricordo
giocavo agli indiani e ti legavo
perché –dicevo- eri mia prigioniera
e non sapevo allora che nella gabbia
c’ero anch’io
Qualcuno mi avrebbe catturata
per mettermi le sbarre dentro il petto
e farmi sentire come pesa il cuore.
A mia nonna Oliva De Lenardis
1993
*
Noi lasciamo
al mago dei sogni
scegliere
il futuro dei giorni
e svelare
dal suo celeste cappello
colombe e rose
trasformarsi in parole
che pur se ancora
senza suono
travolgono il silenzio
oltre la sera.
(21 settembre 1995)