“Le api” di Carol Ann Duffy Vince il Premio Guido Gozzano per il miglior libro di poesia straniera tradotto in italiano
Oggi vi facciamo leggere tre poesie di Carol Ann Duffy da Le api, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti (Le Lettere, 2014), che è risultato vincitore del concorso internazionale Guido Gozzano 2015 come miglior libro di poesia straniera tradotto in italiano.
Carol Ann Duffy è nata a Glasgow nel 1955 ma è cresciuta in Inghilterra. Vive a Manchester ed è Creative Director of the Writing School alla Manchester Metropolitan University.
Le sue numerose raccolte poetiche, amate da un ampio pubblico di lettori, hanno ricevuto riconoscimenti e premi prestigiosi, tra i quali il T S Eliot Prize per ben due volte (nel 2005 per Rapture e nel 2011 per The Bees) e il Costa Poetry Award, ancora per The Bees.
Dal 2009 Carol Ann Duffy è poeta laureata. In questa veste, anziché limitarsi a celebrare le ricorrenze reali come da tradizione, ha pubblicato versi di impegno civile, politico, culturale sostenendo con l’autorevolezza della sua posizione, ma soprattutto con le sue doti di grande poeta, numerose cause di interesse comune.
Con The Bees, Carol Ann Duffy entra a far parte della prestigiosa compagnia dei poeti che da Virgilio a Sylvia Plath, hanno elogiato le api per le loro preziose attività, metafore di un ideale modello di creatività e laboriosa coesistenza.
Le poesie che vedono le api come protagoniste, o nelle quali vengono evocate, sono una quindicina su un numero totale di cinquantasei e danno unità alla raccolta senza tuttavia monopolizzarla. Compaiono a intervalli tra le altre poesie che toccano i temi più vari: guerra, amore, affetti personali, lutti, ambiente, politica, cultura e paesaggio inglese.
La raccolta si muove nel solco della tradizione poetica inglese e ne è una celebrazione: non solo i padri nobili come Shakespeare o Geoffrey Chaucer, ma anche Robert Burns, Gerard Manley Hopkins, Thomas Hardy, Wilfred Owen, Edward Thomas.
Qui, ancor più che in precedenti raccolte, Duffy si compiace del gusto dell’invenzione linguistica: rime, semirime, consonanze e assonanze, allitterazioni, il puro suono della parola, del gioco di parole, le buzzwords della poesia «Bees», nella quale le api sono “brazen, blurs on paper, /besotted”; non volano ma scivolano “glide”, “gilded, glad, golden”.
«Last Post» si caratterizza come una formidabile denuncia dell’inumanità e dell’insensatezza della guerra, nel solco di una ricca tradizione di poesie anglofone su e contro la guerra, Owen in primis, mentre «Scheherazade», evocando la mitica raccontatrice delle Mille e una notte, sottolinea il valore necessario della voce narrante, di una voce indipendente e non soffocabile, simbolo, in ultima analisi, della poesia stessa.
L’autrice dà il meglio di sé laddove tratta argomenti più intimi, come in ‘Premonitions’ una delle elegie sulla perdita della madre, tra le più toccanti e intense.
I quattro testi scelti forniscono a nostro avviso un quadro variegato della poesia della Duffy, e mostrano il suo talento nell’inventività e nei cambi di tono e registro linguistico.
I curatori
Giorgia Sensi e Andrea Sirotti
Da Le api di Carol Ann Duffy (titolo originale The Bees)
traduzione e cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti,
Le Lettere, 2014
Cold
It felt so cold, the snowball which wept in my hands,
and when I rolled it along in the snow, it grew
till I could sit on it, looking back at the house,
where it was cold when I woke in my room, the windows
blind with ice, my breath undressing itself on the air.
Cold, too, embracing the torso of snow which I lifted up
in my arms to build a snowman, my toes, burning, cold
in my winter boots; my mother’s voice calling me in
from the cold. And her hands were cold from peeling
and pooling potatoes into a bowl, stooping to cup
her daughter’s face, a kiss for both cold cheeks, my cold nose.
But nothing so cold as the February night I opened the door
in the Chapel of Rest where my mother lay, neither young, nor old,
where my lips, returning her kiss to her brow, knew the meaning of cold.
Freddo
Com’era fredda, la palla di neve che mi piangeva in mano,
e quando la rotolai nella neve, crebbe
tanto che mi ci sedetti sopra, rivolta alla casa,
dove era freddo nella mia stanza al risveglio, le finestre
cieche di ghiaccio, il respiro che si spogliava sull’aria.
Freddo, anche, abbracciando il torso di neve che sollevavo
tra le braccia per farne un pupazzo, i piedi che bruciavano, freddi
negli stivali invernali; la voce di mia madre mi diceva di rientrare
per il freddo. E le sue mani fredde a furia di pelare
e impilare patate in una ciotola si piegavano a coppa
sul viso della figlia, un bacio per ogni fredda guancia, per il mio naso freddo.
Ma nulla di più freddo di quella notte di febbraio in cui aprii la porta
nella camera ardente dove giaceva mia madre, né giovane né vecchia,
dove le mie labbra, restituendole il bacio sulla fronte, conobbero il significato di freddo.
Gesture
Did you know your hands could catch that dark hour
like a ball, throw it away into long grass
and when you looked again at your palm, there
was your life-line, shining?
Or when death came,
with its vicious, biting bark, at a babe,
your whole body was brave;
or came with its boiling burns,
your arms reached out, love’s gesture.
Did you know
when cancer draped its shroud on your back,
you’d make it a flag;
or ignorance smashed its stones through glass,
light, you’d see, in shards;
paralysed, walk; traumatised, talk?
Did you know
at the edge of your ordinary, human days
the gold of legend blazed,
where you kneeled by a wounded man,
or healed a woman?
Know –
your hand is a star.
Your blood is famous in your heart.
Gesto
Lo sapevi che le tue mani potevano afferrare quell’ora cupa
come una palla, lanciarla nell’erba alta
e quando guardavi di nuovo il tuo palmo, la linea
della vita vi risplendeva?
O quando venne la morte,
col suo perfido latrato, il suo morso a un neonato,
l’intero tuo corpo ebbe coraggio;
o quando venne con pustole e vesciche
le tue braccia si tesero in un gesto d’amore.
Lo sapevi che
quando il cancro ti drappeggiò il suo sudario sulla schiena,
ne avresti fatto una bandiera;
o quando l’ignoranza frantumò il vetro con i suoi sassi,
avresti visto la luce nei frammenti;
paralizzata, avresti camminato; traumatizzata, parlato?
Lo sapevi che
in margine ai tuoi giorni normali, umani
brillò l’oro della leggenda,
dove ti inginocchiasti davanti a un uomo ferito,
o guaristi una donna?
Sappilo –
la tua mano è una stella.
Splendido è il sangue nel tuo cuore.
Premonitions
We first met when your last breath
cooled in my palm like an egg;
you dead, and a thrush outside
sang it was morning.
I backed out of the room, feeling
the flowers freshen and shine in my arms.
The night before, we met again, to unsay
unbearable farewells, to see
our eyes brighten with re-strung tears.
O I had my sudden wish –
though I barely knew you –
to stand at the door of your house,
feeling my heartbeat calm,
as they carried you in, home, home and healing.
Then slow weeks, removing the wheelchair, the drugs,
the oxygen mask and tank, the commode,
the appointment cards,
until it was summer again
and I saw you open the doors to the grace of your garden.
Strange and beautiful to see
the flowers close to their own premonitions,
the grass sweeten and cool and green
where a bee swooned backwards out of a rose.
There you were,
a glass of lemony wine in each hand,
walking towards me always, your magnolia tree
marrying itself to the May air.
How you talked! And how I listened,
spellbound, humbled, daughterly,
to your tall tales, your wise words,
the joy of your accent, unenglish, dancey, humorous;
watching your ash hair flare and redden,
the loving litany of who we had been
making me place my hands in your warm hands,
younger than mine are now.
Then time only the moon. And the balm of dusk.
And you my mother.
Premonizioni
La prima volta ci incontrammo quando il tuo ultimo respiro
si raffreddò nel mio palmo come un uovo;
tu morta, e un tordo là fuori
cantava il mattino.
Mi ritirai dalla stanza, e sentii
i fiori riprendersi e splendere nelle mie braccia.
La notte prima ci incontrammo ancora, per ritrattare
addii insostenibili, per vedere
i nostri occhi illuminarsi di nuovi fili di lacrime.
Oh, mi venne quel desiderio improvviso –
benché ti conoscessi appena –
stare alla porta di casa tua,
sentendo calmarsi i battiti del cuore,
mentre ti portavano dentro, in casa, in casa per guarire.
Poi settimane lente, non più sedia a rotelle, medicine,
maschera d’ossigeno e bombola, la comoda,
gli appuntamenti,
finché non fu di nuovo estate
e ti vidi aprire le porte alla grazia del tuo giardino.
Strano e bello vedere
i fiori chiudersi alle loro premonizioni,
l’erba farsi dolce e fresca e verde
dove un’ape estasiata usciva da una rosa.
Tu eri là,
due bicchieri di vino agrumoso in mano,
camminavi verso di me sempre, e il tuo albero di magnolia
si sposava all’aria di maggio.
Come parlavi! E io come ascoltavo,
incantata, umile, filiale,
le tue storie incredibili, le tue sagge parole,
la gioia del tuo accento, non inglese, danzante, spiritoso;
e osservavo i tuoi capelli cenere incendiarsi di rosso,
l’affettuosa litania di chi eravamo state
mi faceva mettere le mani nelle tue, calde,
più giovani delle mie ora.
Poi è tempo solo la luna. E il balsamo del crepuscolo.
E tu mia madre.
Carol Ann Duffy è nata a Glasgow nel 1955 figlia unica di genitori cattolici appartenenti alla classe operaia. È cresciuta a Stafford e all’Università di Liverpool si è laureata in Filosofia nel 1977. Nel Regno Unito gode di altissima stima di critica e pubblico e le sue raccolte poetiche hanno ricevuto numerosi premi. Vive a Manchester e sta completando nuove raccolte di poesia sia per bambini che per adulti.