José Carbonero
UN ABISSO CHE SEMBRA UN GATTO
Ho un abisso nella conca della mano
stringo le dita per non perderlo,
è un abisso minuscolo silenzioso
si fa vedere poco, ma so che assomiglia
a un gatto, e questo lo so perché
se lo lascio libero mi gironzola
tra i piedi e mi slega i lacci delle scarpe.
Dalle fessure dei suoi occhi verdi
in un instante che dura un batter d’occhio
escono in volo rapide scintille
stormi di infimi pipistrelli
per guardare tutto, sempre, in ogni momento
allora sbadiglia, sembra addormentato, ma sbatte
la coda di tanto in tanto, per farsi notare.
Se lo accarezzi ti lascia nelle mani
un sentore di muffa e di chiuso
come di stracci e cose vecchie
“che inermi annidano in soffitta,
e inaspettatamente sbucano fuori
quando ormai non si sapeva più che esistessero.
D’improvviso volta lo sguardo, fissa, tra l’armadio
e una gamba del letto, un angolo vuoto:
so che ha visto un altro abisso
e penso che parlino del più e del meno
che è di cui, di solito, parlano gli abissi.
Si avvicina facendo fusa profonde e lunghe come
se si fosse ingoiato una caverna con due o tre speleologi
e di colpo è come se tutto si fermasse, e la realtà si ribaltasse
e il mondo fosse fatto per finta, ed è una cosa tremenda
perché in quei momenti qualunque cosa potrebbe essere vera.
Da quando me ne sono accorto,
mi sembra di avere come un nodo alla gola
o una pagliuzza nell’occhio
e tra le mani qualcosa
di cui né io né gli altri sappiamo nulla
ma che soprattutto non vorrei perdere.
SCARABOCCHIO SU UN FAZZOLETINO DI CARTA
che dove tutto brucia rimanga nonostante
un attrito d’argilla, un brulicare di spiriti
che dove tutto manca perduri tuttavia
un odore di aria salmastra, un filtrare di sabbia e foglie
che malgrado sia vesperale la fronte che si inclina
resti un vespaio di sguardi un nido di parole
che non sia vero non importi nulla
che tra scogli salti o s’infranga, ma che non volti pagina
che si stato appena un accenno, un frainteso
o con la coda dell’occhio, o solo di sfuggita
che sia di carta, cartone o residui di sibillina polvere
che siano matite, lapis o tagliaferro
che gli tremino le mani o balbetti o con la voce strozzata
che sia solito insistere, andare fuori strada, sbandare
che tra presentimenti o strane coincidenze
o per sentito dire o averlo origliato o perfino
per averlo solo creduto o desiderato
o perché fu detto e poi smentito,
e nonostante, aver creduto che fosse vero
che a dispetto di tutto, della fermezza, l’incertezza,
lo sgomento, la convinzione,
il timore, l’indifferenza,
perduri il sospetto
che sia tutto vero
e nient’altro.
LITANIA ALLE CREPE
Sorella dei margini fa che in certi giorni si possa entrare di soppiatto nei ricordi come un estraneo, come un visitante, come uno smemorato.
Sorella dei rimorsi spiega perché si sono rotti i sigilli, e il letto è asciutto e la risacca si è appena addormentata sulla riva.
Sorella delle anelate consuetudini svela come ogni Pietro e Paolo apre porte e finestre, arieggia la casa e poi annaffia le pianticelle degli oblii appena germogliati.
Sorella delle gambe sbilenche fa che ci si possa adeguare al tuo ritmo zoppo ed essere fermo, perseverante, sicuro della meta già dimenticata, quasi raggiunta.
Sorella delle mani assenti fa che si dimentichino i commiati, che i gesti più fermi solo servano a impedire le decisioni impellenti, improrogabili.
Sorella delle verità inconfessabili fa che si possa camminare sulle acque, sulle acque stagnanti.
Sorella dei presentimenti fa che ogni indugio sia uno spettacolo di saltimbanchi e imbroglioni.
Sorella degli infidi e dei bugiardi fa che almeno loro non stiano zitti.
Sorella degli offesi fa che siano loro a tenere i fili delle marionette e aiutaci a scoprire il mistero dei loro teatrini eterni.
Sorella dei dubbiosi fa che la fievole fiammella del dubbio bruci voragini tra virgolette, misfatti dopo un accento equivoco, anni d’esperienza tra una parola e l’altra.
Sorella dei distratti, degli assorti, affidaci alle loro scorribande mute.
Sorella degli orli consunti fa che siano fili d’aria a rammendare l’amarezza degli ostinati, la cui colpa è di non essere mai tornati sui loro passi.
Sorella dei confini, dei valichi, delle frontiere ascolta, ascolta ciò che prima era una voce, dopo rimbombo, poi fruscio tra i rami e infine soprassalto, indugio, titubanza, tamburellare delle dita.
da Litania e Scarabocchi (Streetlib Selfpublish, 2015).
José Carbonero è nato nel 1953 in Venezuela da genitori italiani emigrati negli anni ‘50. Dopo gli studi di Fisica e di Musica si è trasferito in Italia e attualmente vive in provincia di Brescia. Oboista, con diversi anni come orchestrale di musica sinfonica e da camera, ha partecipato a numerosi eventi e concerti di musica contemporanea e del ‘900. Finalista al premio Sandro Penna (2005) e al premio Giuseppe Tirinnanzi (2010), i suoi testi poetici sono usciti sulle riviste «Pagine», «Caffè, per una letteratura multiculturale», «El-Ghibli», «Sagarana», «Kumá», e sono inclusi nell’antologia Ai confini del verso: poesia della migrazione in italiano (a c. di Mia Lecomte, Le Lettere, 2006). Ha pubblicato la raccolta poetica Nervature (nella collana “Cittadini della poesia”, a cura di Mia Lecomte e Francesco Stella, Editrice Zone, 2006. Prefazione di Carlo Bordini. Finalista Premio “Dedalus” 2007 e menzione speciale della giuria Premio Nazionale di Poesia “In/Civile” 2007) e le sillogi elettroniche: Dio gioca ai dadi (truccati) e Litania e Scarabocchi (Streetlib Selfpublish 2015).