Mario De Santis

(la notte dentro)
È nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso, di bar, di frenesia
con la città d’estate che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita che si allontana,
Come una fuga senza inseguitori, sta nella pace dei ritratti
conservati negli archivi di controllo: i visi sconosciuti,
malcerti nello sguardo, pallidi e senza febbre
lì durano per essere scordati, li solo siamo noi.
Ed è su questo muro Illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale che non trattiene un solo nome:
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, dalla porta appena schiusa
dell’uscita d’emergenza.
(Christian Boltanski, Les Abonnés du Téléphone, 2000, installazione)
(la notte fuori)
Come passano i tuoi occhi di domanda
dall’Africa invitano al deserto, la tangenziale scava
nelle case oltre Milano – il tuo corpo regna e si vende.
Il re di tutti è in un grido, il cielo nero fa l’arco, ci interroga
e serve alla vita che non sa di finire;
Il sangue taglia in due il referto ottuso di un’orbita lontana
fatta di filiere d’erba secca, un’aggressione scrive la distanza
il giallo d’arso, eloquente nel passo che non ti seguirà.
Basta sapere che qui la notte va trovando strade in cui morire,
la sete buia di ossessioni con quell’incostante deserto
fatto di veglia allucinata dei guardiani,
di pacchi pronti ai magazzini, di silenzi prolungati
La tua carne è un cancello divelto, il sangue sparso
nella risata trattiene dio che ride insieme a te.
Il resto è il nostro mondo, dei pensieri chiusi nell’acqua
della vita persa in un collasso che non ricordo e che pure
sa durare. Sta tutto in un minuto questo giro dell’addio
si spacca e si moltiplica in coriandoli e farina.
Vietato ogni allarme, resta lontana
La rabbia inferma di chi dorme,
però quello che non vede sono io.
La vita si rifugia dietro me, come un colpo
di pistola alle mie spalle. Lo riascolto
quando il giorno si ferma in certe ore
sfocate che infrangono la sera
e sta nella scia dell’ombra e geme,
cupissimo. Non ricordo lo schianto
il punto secco dell’eco che suona a gloria
che attraversa le case scolorite
e veste di paura gli occhi, lavati dalla luce
rifugiati nell’invisibile di una camera in disordine
e questo può bastare.
In quel momento si capisce che la vita va taciuta.
L’ora si rimangia i suoi tumulti, poi lascia nella notte
il viavai dei corpi e dei disguidi. Gli insonni qui
sono il mio modello. Obbediscono come i cadaveri,
come fossero nati per non morire mai
ma pure senza aver vissuto in una bolla opaca.
Così m’infilo nel rigore della nebbia;
domani un alibi l’avrò, per ora torno a casa.
Abito da sempre le stanze che hanno luce
ma non basta. È l’alba e fuori brucia
anche il cemento, l’aria di sola cenere si posa.
E resto tra la notte e il giorno
mi sento ancora sporco e senza voce.
E che prometto al giorno nuovo? Allora cado
prigioniero nel mio sonno e mi nascondo
dal chiarore in una casa vasta
più di quegli occhi che non rivedrò.
Divido il sogno dai risvegli
ma cosa spero di salvare?
Le cose che ho portato non ci sono
Resta la polvere, nel grigio forma
la stasi di un disegno, dispersione,
febbre di scadenza e di deriva,
i giorni semplici che non ho vissuto.
Allora sembro come il calendario fermo
al mese indietro e lì quei giorni maledetti
reclamano in ritardo una presenza
che il mio silenzio non accetta di spiegare.
Per questa notte le notizie non ci sono.
Restano le serrature, le camere blindate,
l’orizzonte che si cancella con la luce.
volano via le automobili passano sciami
di uomini che non parlano nel buio;
lasciano sonno, carezze, incanto, tamburi e una malìa:
precipita nel profondo occidentale il giorno del Sudafrica
la verticale di realtà nell’impossibile
sogno: calare insieme ai minatori di Tautona
nel teatro di luce incenerita
e tutte le distanze appaiono ridicole, violate.
Sento la paranoia dei cani da ispezione
rompere la pelle alla città, farne l’assedio
Oro nel cielo al rovescio che ci somiglia
dove c’è spazio soltanto per i corpi;
e nel soprassalto senza fuga dell’arrivo in basso,
tutto si dimentica, scavare è tempo che frana nel cristallo
fino all’ora in cui dall’alto ci chiamano di nuovo
a fine turno: tornare indietro uscire che è già notte
la nostra luce è solo quella divorata
nell’ora d’ombra che non mi tiene sveglio
e che più di tutte le altre adoro.
Steve Mc Queen *Western Deep (2002), video
Mario De Santis è nato a Roma nel 1964 dove si è laureato con Biancamaria Frabotta in Letteratura italiana contemporanea con una tesi su Cesare Viviani. Dalla fine degli anni Ottanta è collaboratore del mensile “Poesia” (Crocetti editore). Giornalista e poeta, vive a Milano e lavora a Radio Capital, emittente del Gruppo Espresso. È ideatore e conduttore di programmi culturali tra i quali il settimanale di arti e narrazioni “Soul Food”, ed è responsabile dei Libri. Ha pubblicato due raccolte di versi, Le ore impossibili (Empiria 2007) e La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012).
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