Patrick Deeley

Patrick Deeley, da Le ossa della Creazione, Kolibris, Bologna 2010
If I am made to feel small under the stars,
and my looking beyond the moon
into black dungeons of space
is futile, again I must turn to grounded things,
Â
crawl of woodlouse and beetle, boulder
slowly going to pieces, off-shoot
of crack and crevice where the mite works,
and the bacterium. And if I no more
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have eyes for earth than for the sky’s vastness,
still the grey shade of hope attends
my notion of a next-to-no-size creature
supporting a creature a million times smaller—
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on a whisker, say, that sprouts
in the tunnel of its ear, or on the prayer
it offers up, wheter breathing or not breathing,
from the flowing bones of creation.
Se sono fatto per sentirmi infimo sotto le stelle,
e il mio guardare al di là la luna
alle carceri oscure dello spazio
è futile, di nuovo devo volgermi al concreto,
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strisciare di onischi e scarafaggi, al masso
che lento cade in pezzi, alla diramazione
di crepa e fessura dove la termite lavora,
e il batterio. E se non ho più occhi
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per la terra che per la vastità del cielo,
ancora un’ombra grigia di speranza visita l’idea
di una creatura quasi adimensionale a sostenerne
una un milione di volte più piccola ancora–
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su un pelo, diciamo, che spunta nel tunnel
del suo orecchio, oppure sulla preghiera
che leva, respirando o meno,
dalle ossa fluide della Creazione.
The Bee-Sting
The pulsing of the honeybee’s abdomen
as she crawled along my arm,
the scraping, snaggy feel of her limbs—
I couldn’t help but shiver. This
was a wrong move. The abdomen
dipped, the sting struck home. I burned
and burned. And then, because
there seemed no worse thing to expect,
I watched while she dragged about
in a circle before finally breaking
away to die. But the venom sac,
the barbed, embedded thorn, twitched
of their own accord—pumping,
emptying. And I daydreamed these
were the merest scraps of a giant dragon
that wouldn’t and couldn’t die,
raising always out of brokenness
a mending or an attempted mending.
For such was nature to me, such
was nature’s dragon will, all my tremor
matched by the sigh of a wise woman
who came possessed of her own
cure, to sit me on a flagstone and say:
“Child, the sting that doesn’t kill
keeps you supple.†And I found
the shorn antenna dancing still. The twig
successfully sown. The beheaded
earthworm regenerating on the double.
Il pungiglione dell’ape
Il pulsare dell’addome dell’ape operaia
mentre mi strisciava lungo il braccio,
il grattare e incepparsi delle sue zampette –
Non potei impedirmi di tremare. Questo
fu un movimento sbagliato. L’addome
si abbassò, il pungiglione andò a segno. Bruciai
e bruciai. E dopo, poiché
sembrava che il peggio fosse passato,
la osservai tracciare cerchi
strisciando per andarsene infine
via a morire. Ma la sacca del veleno,
la spina acuminata piantata, strappata
in mutuo accordo – pompava,
vuotandosi. E io sognai da sveglio
le minute spoglie di un gigante drago
che non sarebbe morto né poteva,
che dalla rovina sempre traeva
un rimedio o almeno tentava.
Perchè così era per me la natura, così
il volere del drago della natura, il mio tremito
insieme alla vista di una donna saggia
che venne posseduta dalla propria stessa
cura per sedermi su un lastrone e dirmi:
“Bimbo, il pungiglione che non uccide
ti rende duttile.†E trovai la corta
antenna ancora danzante. Il rametto
reciso con efficacia. Il lombrico
decapitato a rigenerarsi in un istante.
Capstone
This garden wall is cherished by more
than me alone. The roses and
the apple branches rising up
out of its grimy foot, stand sheltered.
And the sun, taking all day
to come round the houses, lingers
in every crevice, every mossy spot.
At evening, a game of bluff
is played between two magpies
and a feral cat. And when darkness
falls, woodlice climb to graze
damp pastures of peeling whitewash.
The walls crumbling, pocked
and blotched. Here, my gritted elbows
sit. Here a crown of ivy was
blown off. And here, dream-garden
possibilities present themselves—
foliated, trained and trellised
along fancy brickwork. Still I keep
to a bargain struck with the rain
and the powdering frosts—
a wall stands, there is fervour even in
a forgetful head, something held
sacred under this slipping capstone.
Pietra per cimasa
Il muro di questo giardino è
amato da qualcosa in più
che da me solo. I rami del roseto
e del melo si levano spuntando
dalla base sudicia, al riparo.
E il sole, che impiega un giorno intero
per girare attorno alle case, esitare
in ogni fessura, ogni macchia muschiosa.
Di sera, due gazze e un gatto selvatico
giocano una mano di poker. E quando il buio
cala, una oniscidea si arrampica a brucare
in umidi pascoli d’intonaco scrostato.
Pareti sgretolate, chiazzate
e crepate. Qui si appoggiano
i miei gomiti insabbiati. Qui una corona
di edera fu soffiata via. E qui si presentano
le risorse di un giardino di sogno –
laminate di foglie, reticolate e sostenute
lungo una fantasiosa struttura in mattoni. Ancora
mi attengo a un patto stretto con la pioggia
e i ghiacci che si polverizzano –
un muro si erge, c’è fervore perfino dentro
una testa smemorata, qualcosa di sacro custodito
sotto questa scivolosa pietra per cimasa.
Bluebell
The factories were here even then,
the pylons fizzed above this same stretch
of sad canal. Juggernauts creamed
the asphalt hill. And sky might
be raddled with sunrise, or clouded grey,
but was traversed, either way,
with cables which I’m still in the habit
of counting, thirty years later,
from the vantage of a push-bike,
below the brow of Bluebell. Imagining
blackberry rambles, a country village
away on its own, with woods
enough to coax shade-loving flowers,
bluebells so profusely pooled
a child might pick one for a place-name
and everybody else agree to wear it
afterwards. But all I can attest to
are the pylons and factories – and this
piebald horse, standing glum,
his paddock a patch of cutaway ground.
Once, I dreamed him the original
inhabitant, old man of the place,
the king dispossessed. It was a myth
to shorten my journey. But again today
it comes around, as a startling sound
assails me up by Bluebell hill:
the trouble-boast of a rooster, flung
from a hollow heaped full of tyres
and junk metal. There, with flames
blazoned on his breast, he raises
himself, rattles his wattles in defiance
of our convoyed progress. And for
a moment I credit the earth is breaking
at my heels afresh, as a horse,
a rooster, a capercaillie – all fabulous,
indefatigable creatures restored.
And that the child has picked the bluebell.
Bluebell
Le fabbriche c’erano anche allora,
i piloni sibilavano sopra questo stesso tratto
di triste canale. I bulldozer rivestivano
la collina d’asfalto. E il cielo poteva essere
tinto d’ocra rossa d’alba, o rannuvolato,
ma in ogni caso solcato
da cavi che sono ancora solito
contare, trent’anni dopo,
dall’alto di una bici,
sotto la cima di Bluebell. Imaginando
escursioni per more, un paese di campagna
via da solo, con boschi in quantitÃ
tale da persuadere fiori amanti dell’ombra,
campanule in tale profusione
che un bambino poteva prenderne una per toponimo
e tutti avrebbero accettato d’indossarla
in seguito. Ma l’unica cosa che vedo
sono i piloni e le fabbriche – e questo
cavallo pezzato, depresso,
che ha per recinto una chiazza di terreno scavato.
Un tempo, sognai che fosse l’originario
abitante, l’anziano del luogo,
il re spossessato. Era un mito
per abbreviarmi il viaggio. Ma oggi di nuovo
torna alla mente, come un suono sorprendente
mi assale presso la collina di Bluebell:
il fiero grido di pericolo di un gallo, risale
da una fossa piena fino all’orlo di pneumatici
e rottami metallici. LÃ , con fiamme
diffuse sul petto, si solleva
scuote le canne in difesa
del nostro progresso convogliato. E per
un attimo credo che la terra mi si stia spaccando
sotto i talloni di nuovo, come un cavallo,
un gallo, un gallo cedrone – tutte favolose
infaticabili creature, redivive.
E che il bambino abbia colto la campanula.
Hustings
It becomes a day of living where the world’s
too full of air. No fault
of the thorn trees bristling at the foot
of my neighbour’s garden,
though they seem to conjure the wind,
spend and still retain. More
the loud-hailing from the street—
of politicians whose cardboard promises
ride askew on lamp-posts
beyond the ambit of the trees,
sloganeering now for the next steps, don’t throw
it all away. And such moods as
the power-seekers muster, such propulsion
of stupendous speeches,
such deeds as they would push
to fruition—chainsaws singing in the faces
of tree-folk at Coolattin, highways
grave-robbing the kings
of ancient Tara—count for less,
far less in the long reckoning than the earth’s
resilience, the matter of the wind
managing, the blackbird’s ode
to twilight, the teeming cast of night animals.
Colpi di tosse
Diviene un giorno di vita in cui il mondo è
troppo pieno d’aria. Non hanno colpa
le acacie che si rizzano ai piedi
del giardino del mio vicino,
anche se sembrano supplicare il vento,
spendere e ancora trattenere. Più
il rumoroso richiamo della strada—
di politici le cui promesse da cartellone
corrono di sguincio sui pali della luce
oltre la circonferenza degli alberi,
sloganando ora per i prossimi passi, non gettate
via tutto. E cose del genere esemplari
di chi cerca il potere, tale propulsione
di splendidi discorsi,
azioni come dovessero far pressione
sui fruitori—seghe elettriche cantano in faccia
alla comunità degli alberi di Coolattin, autostrade
depredano i re nella tomba
dell’antica Tara—contano meno,
molto meno sul lungo corso della terrestre
resilienza, la questione della gestione
del vento, l’ode del merlo
al tramonto, la brulicante muta degli animali notturni.
Dragonfly
Don’t be distracted by the blurred pastel
abdomen, the impression this
busybody gives that you are seeing multiple.
Here in sunlight she holds a draft of air
to her own will for slow seconds
on end, scans the deed that is the river,
the leaf as meal ticket. And whether
or not you play accessory, nature
commits no crime, balancing camouflage
with chance of ambush, rehearsing
the bluebottle’s strung-along plea,
the bulrush that draws the dragonfly down.
Libellula
Non farti fuorviare dal pastello sfocato
dell’addome, l’impressione che questa
ficcanaso ti dà di vederci doppio.
Qui nella luce lei tiene un soffio d’aria
al suo volere per lenti secondi senza
interruzione, scruta l’azione che è il fiume,
la foglia come un biglietto di metallo. E che tu sia
complice o meno, la natura
non commette crimini, equilibrando mascheramento
con opportunità d’imboscata, provando
il prolungato lamento del moscone,
il giunco di palude che trascina giù la libellula.
Traduzioni di Chiara De Luca
Patrick Deeley è nato a Loughrea, presso Galway, nel 1953. È cresciuto ai confini di una zona erbosa paludosa, altrimenti detta Callows, la cui flora e la cui fauna hanno costituito il tema costante della sua poesia per circa trent’anni. Dedalus Press ha già pubblicato quattro sue precedenti raccolte, tra cui le più recenti sono Turane: The Hidden Village (1995) e Decoding Samara (2000). Preside di una grande scuola di Ballyfermot, Dublino, è anche autore di numerose opere di narrativa giovanile, tra cui The Lost Orchard, vincitore del Bisto Book of the Year Eilis Award nel 2001.
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