Takis Sinòpulos

A cura di Crescenzio Sangiglio
Takis Sinòpulos è nato a Pirgos il 1917. Laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Atene, ha esercitato per molti anni la professione di medico. Opere poetiche: Intermedio, ed. priv., Atene,1950; Canti, ed. priv., Atene,1953; La conoscenza di Max, ed. priv.,Atene, 1956; Elena, ed. Difros, Atene, 1957; Intermedio II, ed. Difros, Atene,1957; La notte e il contrappunto, ed. priv., Atene,1959; Il canto di Giovanna e di Costantino, ed. priv., Atene, 1961; La poesia della poesia, ed. priv., Atene, 1964; Pietre, ed. Kedros, Atene, 1972; Cena funebre, ed. Ermìs, Atene, 1972; Cronaca, ed. Kedros, Atene, 1975; Raccolta I – Poesie 1951-1964, ed. Kedros, Atene, 1976; Carta, ed. Kedros, Atene, 1977; Appunti della notte, ed. Kedros, Atene, 1978; La luce grigia, ed. Kedros, Atene, 1980.
Tra i più rappresentativi esponenti della generazione del ’50, insieme con Takis Varvitsiotis, Jorghìs Kòtsiras, Tassos Livaditis, Titos Patrikios, Olga Votsi, ecc., e comunque uno dei maggiori autori di poesia nel generale panorama letterario greco nella seconda metà del ‘900, Takis Sinòpulos trae evidenti origini dal surrealismo nella forma ‘codificata’ da Elitis(condotta tuttavia a più radicali esiti), dalle meditazioni ontologiche eliotiane (specie dei ‘Quattro Quartetti’) oltre che dalle soluzioni preconizzate dal movimento del New Criticism nella ricerca dei valori autonomi della poesia, come inserite nella concezione di Ezra Pound.
Anima ardente, in perpetua inquietudine, in continua ricerca di nuove espressività, di ulteriori ampliamenti di visione nei quali porsi rinnovate problematiche, Sinopulos sa esprimersi in vigorose, d’immediato impatto, strutture architettoniche, in una concatenazione di straordinarie trasformazioni della realtà poetica nelle quali una grafia assolutamente personale ha modo di dare saggi di potente qualità ispirativa ed estetica.
L’iniziale esperienza produttiva (Intervallo e Intervallo II) è subito un tuffo nella più macabra atmosfera infernale: una poesia choc, scioccante e travolgente, pennellate a larghissimi tratti in una primordiale grandiosità di effetti che coglie di sorpresa il lettore, lo disorienta con consecutive, inarrestabili sorprendenti situazioni di formidabile fascino, davvero inaudite, fuori da ogni consueto limite. Esprimersi in questo modo vuol dire possedere inesauribili facoltà ricettive di allucinanti realtà, incessanti registrazioni di subcoscienti scombugli e sicura idoneità alla più ampia ‘trattazione’ dell’impressione e delle sue più singolari rivelazioni. Il mondo della corruzione è estremo. Il mondo delle ombre è impenetrabile. Il mondo della allucinazione irriscattabile.
Un senso di assoluta decomposizione regna nella visionaria significazione del racconto poetico, specchio di interiori impulsi tali da condurre ad una inovviabile somatizzazione degli effetti che ne derivano. E l’inferno non è un eccessivo clima per i personaggi che vi trascorrono sconvolgendosi e disfacendosi in un totale crollo.
Ma l’universo di Sinopulos non è statico. In lui convive sin dall’inizio una naturale propensione alla trasformazione, si direbbe una ‘necessità di trasformazione’, una genetica fatale esigenza metamorfòtica attraverso la quale egli intende attuare la conoscenza delle apparenze nella loro mutevolezza tra la vita e la morte, tra la creazione e lo sfacelo, tra la formazione e la dispersione.
Così, la funebre immanenza del disfacimento e della morte si esaurisce, si dissolve: un mondo onirico di luce ne sboccia, quasi tangibile, tanta ne è la veridicità e la personale partecipazione che lo realizza (La conoscenza di Max). Ed è una parentesi come un raggio di sole nei tenebrosi meandri della visionaria sensibilità. La trasformazione crea l’intermezzo di una musicale serenità, che appare come un vero e proprio miracolo della speranza, nella coscienza che la vita potrebbe non essersi del tutto perduta e quindi un avvenire ‘lussureggiante’ possa essere ancora per essa ipotizzabile.
E poi, ecco, anche la bellezza (Elena), il suo trionfo sulla morte (‘risplende, superiore, nella patria della morte’) – la bellezza nell’amore e l’amore nella bellezza che si fa Poesia. Insomma, un sillogismo dove in ultima analisi amore significa Poesia (‘legare l’amore a questa irruente poesia’). E la poesia diviene il filo conduttore per scoprire i segreti della bellezza, la ‘passione della bellezza’ nella sostanza del proprio io e della materialità circostante.
Un’altra trasformazione, un’altra tensione metamorfica, nella quale trova la sua più piena giustificazione il concetto della poesia intesa come entità o natura esistente in se stessa e per se stessa, enfaticamente autonoma nella sua essenza e nei suoi valori primordiali.
Le metamorfosi del poeta: sono le ‘abbaglianti rivelazioni’ che crea il ‘mito della realtà’ in cui si esalta ‘il lato assurdo’ dell’esistenza delle cose – una fenomenologia delle cose in perpetua autoriproduzione, che riporta in superficie nuovi palesamenti metamorfosici in una interminabile serie di susseguenti sensazioni visionarie.
E giunge il momento della rivelazione del reale: la trasformazione si evolve finalmente nella immediata presenza della materialità vivente alla ricerca della verità totale e assoluta delle cose, della coscienza stessa della loro obbiettività sostanziale (‘La notte e il contrappunto’).
Ed è forse il timore di uno smarrimento nel nulla a spingere il poeta ad uno sfrenato tendere verso le cose nella loro infinita molteplicità. Nel contempo egli anela ad un equilibrio tra un ‘dio infinito’ e uno ‘zero’ ugualmente infinito per giungere alla verifica non illusiva dell’esistenza.
Il contrappunto della nullità si fa pressante, nuovamente incombe. Le rovinose visioni riprendono il sopravvento, un saccheggio senza fine riconduce l’idea della morte, riproduce l’ideologia della morte e la memoria della morte, solo che questa volta la sua valenza semasiologica fluttua tra due incubi nuovi: la solitudine che è inesistenza e il nulla che è esaltazione della morte.
D’altra parte tra questa morte che ‘brilla’ (‘la mia luminosa morte’) e questa inesistenza che si radicalizza (‘il giorno cenere la notte nulla’) s’interpone e s’impone il più grande dilemma: la contrastante dualità dio-zero, la pienezza della positività e la assolutezza della negatività, ‘un abisso da una parte e dall’altra’(J. Themelis).
Capitale è l’esigenza di trovare un ubi consistam di bilanciata sicurezza. E inderogabile l’esigenza di una risoluzione, sia pure temporanea, quando ‘la crescente realtà della morte’ diviene insostenibile (‘l’unico animale domestico che adesso posseggo è la mia morte’).
Allora ricompare la ‘necessità di trasformazione’ come àncora di salvezza, o almeno tregua all’incalzare del pericolo di sfaldarsi nella esistenziale inesistenza, un vuoto insondabile nell’anima insondabile.
È lo spiraglio aperto non semplicemente sulla scoperta della carnale dualità uomo-donna, ma ben nella più profonda ed essenziale intimità dell’inestricabile identità/diversità umana di questi due universi, i soli capaci di esorcizzare ‘la morte, l’incomprensibile notte’ e sopprimere la ‘sete di completa inesistenza’(‘Il canto di Giovanna e di Costantino’). E rinasce, rifiorisce intimamente sensuale, delicatamente allusivo e poeticamente spirituale ancora il ‘Cantico dei cantici’, un nuovo inno alla natura femminile attraverso la speculare corrispondenza della sensibilità maschile:
nei miei occhi addormèntati che dormono
……………………………………………………..
bella donna radicata dentro di me,
si compie così il misterioso vincolo che avvera la connessione uomo-donna nelle cui radici si realizzano le reciproche antitesi, tutte le possibili versioni dell’amore, tutti i luoghi ignoti dell’anima.
Sono nuove dimensioni vitali che si schiudono, non esenti tuttavia da minacce (‘la tua bocca profuma come il pericolo’), da ricadute negli incubi trascorsi. Sinopulos ritrova finalmente, anche lui, ‘la strada aperta e luminosa come la mano di Dio’ – un percorso fors’anche non veramente anelato, fors’anche incidentale, nondimeno per un breve periodo riconosciuto sufficiente per una parziale ricostruzione delle macerie.
Ma la luce non sembra bastevole a cacciare i fantasmi; l’amore appare troppo aleatorio per costituire una barriera invalicabile e protettiva. La notte ritorna sempre e alla fine la parentesi si chiude nel ‘soffocante mercimonio dei compromessi’ in una dimora dove sono ‘funebri finestre del deserto cimiteri’.
In questo quadro, non proprio promettente fauste soluzioni, avviene il ritorno ‘all’ombra dello zero’. E’ una situazione personale che, negli anni in cui le obiettive congiunture socio-politiche vanno vieppiù precipitando, s’impelaga in una sempre più disperante impossibilità di sbocco, mentre nel contempo una attiva partecipazione, in prima persona, agli avvenimenti cruciali che conducono alla ‘ingessatura della democrazia’ è proprio il modo più acconcio e diretto per deteriorare ulteriormente la costituzionale, pessimistica, anzi distruttiva visione generale del mondo.
Pochi anni prima della morte(1981) Sinopulos estremizza l’espressione poetica nelle maglie di un surrealismo di vigoroso afflato fantastico, in una metrica ad ampio respiro, ma fortemente cadenzata, sincopata, convulsa, dove le parole acquisiscono intense colorazioni e brutali tonalità (‘Cena funebre’). ‘Montagne insanguinate e pietre’ gli cadono addosso; ormai sembra accertato che scampo non esiste, dal momento che ‘i secoli (sono) dovunque la medesima tenebra’. Appare chiara l’intenzione di abbandonarsi in una definitiva dimissione dalla speranza, se mai una speranza abbia fornito prospettive di un certo ‘risanamento esistenziale’: troppe rovine, fuori dall’uomo e dentro l’uomo, si sono accatastate e troppi sono scesi nel ‘fiume oscuro’.
E poi dappertutto è sceso il silenzio. Lo squallore di una vita frammentata, di una memoria greve di lutti e di un presente bruciato senza nessuna accettabile eredità per il futuro, si è tanto esteso da generare una insanabile angoscia di vivere e un numero eccessivo di chiodi profondamente piantati nella mente e nel corpo.
Ricompaiono rimembranze di coltelli, di assassini, di ammazzati che il mare scarica sulla sabbia, di torturatori – il passato si coagula in un presente che nella ‘poesia amara’ conta le ferite lasciate, sopra tutto quelle invisibili. E manca sempre la possibilità di dare una risposta agli interrogativi che ne scaturiscono, non esiste nessuna risposta plausibile ed accettabile per il ‘sangue versato sprecato’(‘Cronaca’).
In queste condizioni il cammino non può che considerarsi concluso e comunque irrilevanti risultano gli estremi sviluppi creativi di un’esperienza d’arte e di vita intesa come ferita irrimarginabile.
Finalmente il poeta è giunto al punto irreversibile di considerarsi ‘inquilino dell’eterno’!
PICCOLA ANTOLOGIA
Da ‘INTERVALLO’
Elpenore
Paesaggio di morte. Il mare pietrificato i cipressi neri
la riva bassa devastata dal sole e dalla luce
le rocce scavate l’implacabile sole di sopra
nè un fluire di acqua nè un’ala d’uccello
solo un denso smisurato spianato silenzio.
E’ stato uno della scorta ad incontrarlo
non il più vecchio: guardate Elpènore deve esser lui.
Volgemmo subito lo sguardo. Strano essercene ricordati
dopo che s’era disseccata la memoria come letto di torrente in estate.
Quello era davvero Elpenore tra i cipressi neri
accecato dal sole e dai pensieri
frugando nella sabbia con le dita cionche.
E allora lo chiamai festosamente: Elpenore
Elpenore come ti sei trovato qui all’improvviso?
eri finito col ferro nero conficcato nelle costole
l’inverno scorso e vedemmo sulle tue labbra il sangue rappreso
mentre il tuo cuore si prosciugava accanto allo scalmo dello scafo.
Ti piantammo con un ramo spezzato all’estremità della riva
che tu sentissi il mormorio del vento e il fragore del mare.
Ed ora come sei così vivo? come ti sei trovato in questo luogo
accecato dall’amarezza e dai pensieri?
Non si voltò a guardare. Non udì. E ancora gridai
profondamente spaurito: Elpenore che una pelle di lepre
avevi per amuleto appeso al collo Elpenore
perduto negli immensi paragrafi della storia
io ti chiamo e il mio petto risuona come caverna
come sei arrivato amico d’un tempo come hai potuto
raggiungere la nave nera tenebrosa che ci porta
sotto il sole morti erranti rispondi se il tuo cuore
desidera che tu venga con noi rispondi.
Non si voltò a guardare. Non udì. S’addensò ancora il silenzio intorno.
E la luce scavando ininterrotta infossava la terra.
Il mare i cipressi la riva pietrificati
mortale immobilità. E solo lui Elpenore
che cercavamo con tanta insistenza nei vecchi manoscritti
tormentato dall’amarezza della sua perenne solitudine
col sole che s’infilava nei vuoti dei suoi pensieri
accecato frugando nella sabbia con le dita cionche
s’allontanava come una visione svaniva lentamente
nell’aria deserta senza ali senza suoni.
GIACOMO
Non mi son reso conto quando era arrivato.
Alcuni guardavano apertamente dentro le sue ossa
ma io null’altro vedevo se non il suo viso
bianco come gesso e consumato
da migliaia di anni.
Strano la mia memoria risale
alla sua età. Chi mai ha contato
il suo numero. Allora portava
una maschera di sorriso.
Tardava a morire e lo lasciai
solo con una candela.
Ora è avvolto nel mio mantello
militare. Tutto nero e le sue narici
gonfie di bile.
Delle volte dentro queste scartoffie
lo sento tossire.
Da tempo non s’è mosso di qua.
Nei suoi occhi la luce è sparita.
Sembra che la sua morte continua
immutabile.
Giacomo è un corpo diviso.
Una parte posso vederla
l’altra si perde nella decomposizione.
Solo la sua mano così calda
ricorda cose da me desiderate
ma da altri possedute.
Me ne andrò con Giacomo.
Devo raggranellare tanti anni.
E allora tu che rimarrai
ti prego dà questo messaggio
ai sopravissuti.
Da ‘INTERVALLO II’
L’isola della morte
Carne e luce respiravi in mezzo alle rocce argentate.
Ho udito la voce del mare del legno la voce.
Altre voci nel meriggio.
Infuocato il lido di sabbia
e a occidente delle rocce
le mani e i piedi e i corpi
lì allattavano il sole
le alghe.
Più lontano muricce più lontano i giardini
sotto il sole immobili
sotto il sole.
Ho udito le voci. Non ho potuto
distinguere ciò che volevano.
Indovinavo soltanto il messaggio.
L’isola si raccoglieva
le unghie nere sul corpo del mare.
Ho gridato ancora con la carne sì la carne.
La metti di fronte alla morte
e lei combatte.
Io ti cercavo
dappertutto spezzandomi le dita
nelle pietre e nella luce.
Il sangue zampillava dalle ferite.
Ti cercavo cosa cercavo?
Eri non eri partivi svanivi. Dissi colpiscimi
sul viso sui denti sugli occhi colpiscimi.
Spezzami il corpo con forza
perchè mi chiamano le voci.
Mi sono seduto sulla roccia.
Arrivavano le voci arrivavano le loro teste
bianche ed io col bastone le scacciavo.
Rombavano portavano messaggi –
le mani inchiodate di luce
sale luce silenzio.
Ho udito tutte le voci
che parevano sussurro.
Sogno sospinto dal vento – e andava
all’acqua della roccia per lavare
le mani e il volto
per rimuovere il sangue.
Non va via dall’isola il sangue. Con la carne sì
lottando con la morte lottando
con te i miei morti i morti
i legni le vele –
voce di morti voce del legno e del mare
nell’isola sabbiosa
tua voce
non s’udiva in nessuna parte
non voce del rifiuto
ma voce umana
del terrore o della morte
mentre mi destavo dal sogno
e andavo dove andavo?
Erano mani queste
le mie mani le tue mani le mani dei morti
e l’isola nel sole
e l’isola nella profondità
il lido sabbioso
nel sole rocce appuntite
rocce argentate.
Solo io conosco ciò che ho udito.
Perchè i morti solo la lingua dei morti
sentono.
Da ‘ELENA’
La gioventù di Elena
Quanto sono notturna nella china densamente ombrosa
del mio primo amore. Cielo pieno di pesante
uva nera per l’arroganza della nuova estate!
Grida dai campi un’alba squisita. Un’aurora
che esala semenza di pallidi sogni. E il mio corpo
nella luminosa quiete preda del tempo terrestre.
Oh! baci
rugiadosi purissimi nella memoria delle stagioni
che vivemmo nel deserto. Voci voci e volti ignudi
a lungo perduti nella rimembranza confusi
in sepolcri e fuochi. Il segreto dolore celeste
di quell’unico che mi ama ed io
a lottare per emergere integra da questa poesia
amara. Solo questo
mi sostiene nell’immortalità – la chimera.
Il mio sangue sento come un arcobaleno
ed eccomi nuovamente qui con questo invito
giunto per battezzare la mia carne esperta
in una nuova morte. Amara
mia amarissima esistenza per ansie regnanti
terribili strascicati ricordi.
E tu incomparabile che mi ami
oh baciami ancora nella mia tenera profferta
oh adora nell’amore la mia nuova gioventù.
Da ‘LA NOTTE E IL CONTRAPPUNTO’
Sez. Contrappunto 1952
5.
Un cielo rotondo
tanto prezioso e irriducibile
una nuova vita amorosa
foreste della primavera
quando la mente si trasforma in un luogo immenso
dove alberi uccelli e corpi veleggiano.
Sez. Contrappunto 1957
Circostanze
A J. Jeralìs
Colui che ha saporato
cenere e bile nel fumo del giorno
colui che ha camminato
senza sospetti sull’ombra della sua morte
dormono dentro i miei occhi
tremola il meriggio
dall’immensa luce del corpo
dalle esplosioni
degli alberi.
Sez. Altre sette poesie
Tu e la poesia
Torni e ritorni in questo salone
tanto nuda che ti guardano tutti.
Tormenti le poltroncine come se tormentassi il colpevole.
Ti dico di soffocare dentro di te questi uccelli selvaggi
ma tu li rimetti in libertà.
Ti rabbuia la tua afflizione
e vieni qui.
Da tempo torni e ritorni.
Risplendono le tue ginocchia nel salone.
Con le mie lacrime ti lavo le mani e le ascelle.
Ti lavo i piedi fino alle montagne.
Per vestirti ti regalo la mia voce più calda.
Ma tu te ne vai
come sei venuta
nuda
perchè sempre ci sia una poesia
che parli
di te.
Da ‘IL CANTO DI GIOVANNA E DI COSTANTINO’
Sez. La Cronaca
Cantico dei cantici
Chi viene? Chi viene portando un rametto
rugiadoso? La mia benamata viene
in questa grande dimora oscura. Viene colei
che ha un nome di vocali gli sguardi indefiniti
salendo la vecchia enorme scala che scricchiola.
La diletta viene tremante. Le sue ginocchia
nella notte somigliano a due fresche monete.
Parla e sento un grande sciame di api.
Non sento nulla. Su di me balena la sua mano
come la neve sul ramo.
Non so cosa fare. Un difficile vocio si muove in me.
Siediti mia cara nell’ombra della stanza.
La tua nuca è fresca come il fiume.
La tua bocca è uccello.
La tua nuca è notte.
La tua bocca è ricordo.
Non conosco nomi di uccelli.
Stasera passerò il mio braccio intorno alla tua vita.
Ti terrò con forza come i margini del fiume
tengono il fiume.
Ti addormenterai dentro la mia sete,
come l’orcio affondato nella sabbia.
Benamata i tuoi vestiti odorano
come gli alberi nati nel mare.
Le tue spalle sono un’alba di primavera.
I tuoi seni sono foschia.
La tua bocca chiacchiera come l’ala di un insetto.
Oh turbata dai miei baci come la grotta dalle onde
addormèntati nell’ombra del mio sonno
nei miei occhi addormèntati che dormono.
Nel mezzo della notte m’ha destato la voce della notte.
Un corpo sradicato galleggiava sulla spuma del sonno.
Piante nascevano nelle sue pozze fresche.
Svaniva il viso si trasformava.
Dove sei mia cara presente qui eppure assente
a sfiorar senza sospetti la porta della morte?
dove sei immacolata purissima
piena di luoghi sconosciuti
tu emergente dall’acqua?
Mia cara la tua pelle è il fiume
che scivola sotto il mare.
Le tue vene sono alberi pieni di frutti.
Stringiti su di me pallida riconciliata con la luce.
Sarò un cielo e sarai un silenzio
nel cielo.
Mia cara pericolosa
come l’erba nuda
come la mano nuda
donna bella radicata dentro di me
bella compiuta
conquistata ora
conquistata.
La solitudine della madre
Una strana profondità esiste per me. Da tempo
dormo nell’interstizio tra morte e oggetti
e ciò che mi appartiene è il diritto di sognare
quello che possedevo una volta. Parlo sopra tutto
delle piccole gioiose voci nel piano di sopra
di quella particolare flessione del ramo
sulla siepe con la luce dell’uccello
che diventa primavera e sembra essere
tra le cose assenti un’improvvisa presenza.
Parlo di me. E di voi. E questo venga a sapere
Giovanna la rondine coi chiaroscuri nel movimento
con il corpo di fuoco che si allontana
giacchè non udì giacchè un tempo udrà il suono
del deserto in questa casa guardando
sul muro il bambino morto nella fossa con me
che volto ormai non ho e non esisto
in ciò che ho costruito e ancora costruisco.
Qui in casa l’odore del legno che brucerà domani.
La pietra che domani morderà il mio osso duro.
E dunque dimmi cosa aspetti
dietro il tuo lenzuolo bianco gli occhi immobili
mio uomo d’altri tempi quarant’anni sovrano morto?
Da ‘POESIA DELLA POESIA’
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Nel momento in cui lotto con una poesia non esiste nessun specchio ch’io possa vedere la mia metamorfosi.
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Talvolta nel sogno le parole s’illuminano di una luce strana cambiano ritmo e significato si schiudono come fiori oscuri diventano porte per il cielo e il mondo di là.
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Dietro il quotidiano inferno delle parole le poesie respirano vivamente e il loro limpido significato rispecchia dappertutto una fantastica felicità che giammai s’incendierà.
Tra la realtà e me esiste il mito della realtà dove le cose godono il lato assurdo della loro esistenza.
Gli gridai che era nudo e mi rispose che indossava la nudità sopra i suoi vestiti.
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Quel giorno era un silenzioso rotolio dell’eternità nei solchi del tempo. Gli alberi generavano milioni di nuccelli. Nessuna nuvola nessuna morte. Tutti salivano per festeggiare sulle montagne e i ladri dell’amore svenivano nell’estasi.
Ogni volta che penso mi trasformo in un uccello che conosce solo i cinguettii.
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Nessuno sa quale terrificante resurrezione ideano queste poesie. Il loro sangue brucia le dita e adesso cola sulla terra. Dalle pietre spunta il capo di inspiegabili assordanti grida.
Con una luce con l’altra luce si faceva molta luce si faceva buio.
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Ogni nuovo amore ti dà un altro volto ti conduce ad affrontare ancora una volta la tua solitudine. Quando l’amore se ne va il vuoto somiglia un luogo del delitto.
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Disse vi leggerò questa poesia. E infilando la mano per afferrare il manoscritto tirò fuori faticosamente dal tiretto la placida testa di un morto.
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Ho afferrato il fiume dalla gola fischiando un vecchio motivo per quelli che perirono nel fiume.
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Finì ch’era stanco ma la poesia gli sembrò pesante piena di pietre. Certo c’era un pò della fantasticheria del cielo voci del mare uno strano fiore. Le pietre però gli creavano difficoltà. Più delle trappole delle botole che aveva seminato qua e là per gli ipocriti e gl’insospettabili.
Da ‘CRONACA’
Sez. Appunti
Appunto VII
Più tardi molto più tardi.
Quando Alèxandros sarà stato ammazzato quando Kostandinos Nikitas e l’ostinazione e l’odio e non respirare non parlare attento còpriti copritevi. E ogni giorno un peggio senza speranza che la paura il buio siano mai aboliti.
E il coltello col quale ci siamo battuti a inchiodare adesso il nostro corpo.
Con le cerimonie pubbliche per gli assassini.
Certe canzoni si sono disseccate in gola.
Casa storpiata i chiodi che tenevano su la casa adesso non tengono un bel niente.
Allora sei venuto e abbiamo parlato. Ed eri tu che avevo conosciuto era una luce oscura qualcosa di furtivo nei tuoi occhi – dimmi cosa ho conosciuto di te?
Prima o poi mi risponde Orsa e questa finestra si scollerà dalla tua memoria. Dovunque tu vada non avrai più l’amore il cielo per alleato. Solo i morti interminabili code sarai medico dei morti. Ed altri volti dalle tue vecchie poesie.Con che cosa vivrai? Continuamente le tue favole come questa lavagna nera e chi se ne interessa? chi le legge? E non dirmi del tuo debito dà qualche centesimo al povero e ciò che devi rimarrà per sempre irriscattato lo sai.
Camminando e parlando ci siamo trovati nel giardino sconosciuto. Il mare ignoto più in su canneti e la luce appariva come librata tra mare e terraferma. Per la prima volta non avevamo nulla da temere. Siamo entrati nell’acqua e abbiamo seguito il morbido fondo sulla sabbia che giocando faceva a pezzi la rete del sole. Finchè l’acqua ci coprì e noi camminavamo ancora. E i dolori svanirono dal corpo e la fame dalla memoria.
E in me penetrò tutto il tempo in cui tribolavo con Orsa. E non dicevo nulla. Che mi aveva prosciugato la povertà e non ero nulla.
Che avevo trovato nella cappella di Sant’Andrea quel ciottolo nero rosso.
E il giorno appresso in piazza Chalkèon-Ifestu.
Che ti dissi guarda Pietro una cosa il fuoco d’artificio e un’altra il miracolo.
Che arrivarono a gruppi gli zingari neri dalle guance paffute ed erano tamburi e tamburelli e zampogne ed erano.
E tutt’insieme eravamo una compagnia in primavera quella notte.
Kostandinos e Petros e Fotis. Caterina e Fìlippos e.
Il corpo di Eleni arato profondo come d’un tratto uscito dall’utero della terra. E l’occhio nero fulmine smaltito.
E quell’altra la chiamavano Duccia. A camminare rasente il muro andare davanti pazza cantando e a braccetto con Orsa. M’irritava il gioco delle ombre allora come adesso i morti due a due nella memoria.
Ogni poesia legenda di morti
noti e ignoti.
Una fila di ammazzati nell’acqua che il mare ha scaricato sulla sabbia. Si laveranno nelle sabbie.
E la luce
una luce intatta senza confini.
Sez. Ancora una notte
II
Gli amici che avevo un tempo.
Il loro sangue chiar di luna e la pietra nel cortile segnata dalla luna.
Nel tuo sonno scende il grande fiume con la piroga e l’acetilene la notte.
Ricordi di essere nato lì ma questo non ti soccorre nella libertà.
Stasera la notte due + tre + quattro battono sul tramezzo e la febbre nottambula la pantera nottambula addosso a te
a chiedere e richiedere.
Ho visto la schiena che il fucile prende di mira ho visto quarant’anni insanguinata la camicia. Appurare cosa? rispondere a cosa?
E la mappa del tempo alluvioni e distruzioni – ti ho gridato guardati Kostandinos allora volgesti il viso
oh! allora volgesti il viso.
Sez. Saggio ’73-‘74
III
I camion scendono la notte
la notte dischiude altre botole.
Ricorda quel pozzo prosciugato
dove trovasti i novanta cadaveri.
In luogo della bocca hai un buco
cùcilo a costure strette.
Ora s’incrocia l’occhio
coltello col tuo occhio.
Qualunque cosa tu dica a questo muso
l’atto si moltiplica.
Nel piano di sotto ansimano
gli altri che stringono i ferri.
Noi comunque lo sai non
abbiamo udito nessuna voce.
XVI
La Grecia viaggia da anni dentro la Grecia seguendo il sangue versato sprecato.
Sangue gocce scorrono gocciano di sotto nell’Ade.
Sopra i morti cadono gli ammazzati cambiano di posto non si svegliano.
Soltanto la loro mano si alza e indica là dove camminano gli assassini.
La Grecia viaggia da anni in mezzo agli assassini.
Saggio critico e traduzione Crescenzio Sangiglio
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