Ursula Krechel. Maneggiare con cautela questa materia

Massimo Sannelli
Prima della lettura è utile guardare la data di nascita: 4 dicembre 1947. Il 4 dicembre sono nati John Giorno e il nostro caro Jeff Bridges (la vita non è più la stessa dopo aver visto Il grande Lebowski). Forse Krechel non avrà pensato di essere nata il giorno di Bridges. Forse ha pensato a Giorno. Sicuramente ha pensato a Rilke, per forza di germanistica e di maestà poetica. Rilke e Krechel sono nati lo stesso giorno e Krechel si ispira a Rilke. Non è un’illazione ma un dato di fatto: Calore e battito del cuore è una poesia dopo Rilke.
Allora il primo appunto è un dato: una data precisa, il giorno di santa Barbara. Il dato del giorno è fondamentale, se un libro è l’antologia di una cronologia, fatta dall’autrice. La cronologia va dal passato al presente. Quindi il libro è la sintesi della vita pubblica di Ursula Krechel.
Il secondo appunto è un’annotazione. Qui si parla molto di luce e molto di storia. Alla luce si fanno inchini. La luce è lo spazio del buon Dio che sa tutto, anche come crescono le unghie dei piedi, là sotto. La luce dà indicazioni e illumina la stanza. Sono cose ovvie? Certo. Sono cose ovvie all’interno di una storia. Naturalmente è la storia di una donna orgogliosa e donna di lettere, e signora del linguaggio. Quindi è anche la storia della Germania. Ovviamente non è una storia proprio epica, se si è nati nel 1947. In ogni caso è la storia: chi vuole, leggerà Mnemosine e capirà. E poi legga Storia, letta alla rovescia e soprattutto la poesia delle Parole d’ordine. Lì c’è tutto o quasi tutto quello che le ellissi della poesia lasciano capire (e Krechel non è proprio generosa nel lasciar capire: il punto non è quello, e nemmeno capire se stessa. No: il punto è come lavora la funzione linguistica all’interno delle paludi umane, cioè della storia, e stiamo a vedere: giochiamo e ragioniamo, e poi smettiamo di ragionare, sragioniamo, e poi smettiamo di giocare, e applichiamoci; e poi disapplichiamoci e basta, ma ricordiamoci che il 4 dicembre è nato Rilke, quindi è nata la poesia. A proposito: io sono io e “la prima persona singolare esige distanziamenti che servono a tenere l’Io autoriale biografico fuori dalla traiettoria del lettore in cerca di identificazione”. È come dire: Io non sono chiara per voi, ma se sono chiara per voi io non sono io, vi devo spiegare proprio io che un lettore-lettore è poca cosa? Siate critici, quando leggete).
Non viene voglia di immedesimarsi – immedesimarsi senza un palco è un atto un po’ volgare, davvero – ma uno pensa che proverebbe volentieri qualche forma di discorso indiretto libero. Leggi Ursula e ti viene voglia di parlare come lei, senza immedesimazione: senti che è una voce giusta e dolcemente autoritaria. E sarai folgorato – dalla storia e da Ursula – se farai errori Sulla prospettiva.
Il terzo appunto è un invito a naufragare nella Bozza per una antologia dei corpi. Di che cosa parla questa Bozza? Dei corpi e della funzione linguistica. Cioè della poesia, per forza. Tutto si riduce a linguaggio? Dal punto di vista umano troppo umano, sì. E invece la domanda è detta male: il fatto è che non è una riduzione. Ecco come parla Krechel, nel corpo stesso di questo libro: La notizia “pretendeva da me di non essere annientata, implorava la grazia di essere vista, lavorata, respirata ancora una volta. Così parlavo ancora per lei, mentre la giudicavo”. E “se la notizia fosse certa della sua lingua, se io fossi stata più certa almeno della sua lingua, la notizia sarebbe diventata una poesia, si sarebbe chiarita in una poesia, ma io l’ho accantonata. Non ci tenevo. A una poesia avrei tenuto. Avrei voluto che fosse letta. Quando cerco di descrivere il fallimento di una notizia, cerco di descrivere l’amato bisogno, proprio perché non è questo processo di divisione a costituire la scrittura, è ad essa concatenato in modo intransigente”.
Il quarto appunto è che senza ferri del mestiere non vai da nessuna parte. Serve una certa cultura comparatistica e storica. E serve anche una certa opinione di sé: il proprio ruolo nella funzione linguistica che rilancia la notizia. Sembra facile e non lo è. Torcere il collo all’eloquenza è un caro detto di Verlaine e va bene. Ormai lo fanno tutti, anche i meno carismatici. Sì, ma Krechel torce il collo anche a noi: con i ferri del mestiere, con la cultura comparatistica, e con una certa opinione di sé: il suo ruolo nella funzione linguistica che rilancia la notizia. Senza dimenticare che il 4 dicembre è il giorno di santa Barbara: patrona degli artificieri, dei minatori e delle polveriere. Attenzione agli esplosivi, allora. Maneggiare con cautela questa materia.
Mnemosyne
Längst geh ich schwanger
mit dem Laich der Geschichte
dem kein Gott Schwimmhäute wachsen läßt
in einer zukünftigen Zeit.
Das nüchterne Wasser ist ausgetrunken
von nun an Tümpel, Fieber
im Nacken ausrasierter Fleiß.
Nein, ich werde nicht vermißt
die gestorbenen Dinge
Stuhl, Kamm, Ohrring, Fahrschein
leiern den Singsang des Verlusts.
Und wer mich begehren wollte
im Blütenstaub Deutschlands
Geschichte einer zukünftigen Totgeburt
den verlach ich.
Die fischblütigen Herren, an Telefone gekettet
kopfüber besorgt, doch unerschüttert
ein Jahrhundert zu spät
verfroren in blauglänzenden Kuben.
Wie die Kalenderblätter flattern:
als seis ein weiterer Herbst.
Zahnlose Münder, möbliert
mit porzellanweißen Gebissen
erflehen meine unbefleckte Empfängnis
aber ich trag Wackersteine mit mir
schön erfundene Lügen, seifenglatt
gepolstert mit echten Zitaten
eine schützende Hand auf dem verlogenen Leib.
Känntet ihr mich: ich
wollte euch nicht kennen.
Rauhreif und Scham, Gebirgspfade
beperlt mit Vogelbeerbüschen
so selbstverständlich ist schon
daß jeder geträumte Rauchpilz
die Träumenden selbst verbrennt.
Das Wintergewitter über der Autobahn:
daß ihr es lebend überlebt und lacht.
Geschichte, rückwärts gelesen
Mützen werden aufgestülpt
die ehrende Erwähnung einiger alter Hüte
ein Hausierer mit Limonade und Eis
tritt in die Kammer Spiegelbildlicht
Beigeln sind ausverkauft, gefangen der Floh
er liebt eine Laufmaschenleserin
doch sie läßt ihn laufen
unehrenhafte Entlassung eines neuen Kalenders
hausiert mit Beigeln, erwärmt von Limonade
aber welches Eis, welche Leute, Limonade
welches Aus, welches Bestreben
ins Aus zu rutschen wo
Parole Echtzeit
Der Tod ist kein Meister.
Er hat seine Geschichte vergessen.
Die gewohnte militärische Ordnung seines Körpers
unter der Uniform: ein Trugschluß.
Mit seiner harten Hand
– erprobt an Videospielen und Simulatoren –
bedient er Knöpfe und Schalter
er ist ein Besitzer des Schleudersitzes
er ist ein erfahrener Simulant.
Tod heißt Zielgenauigkeit im Fadenkreuz.
Nie Wörter wie Bodenverbände, Abschußrampen, Spürpanzer
Wörter geschrieben mit meiner Hand
die sich erhebt und wieder sinkt
die sich sperrt, Panzersperren, Angriffskorridore Feuergürtel, Minenteppich
wie die Sprache explodiert in Feuer und Rauch
zusammengeballte Wörter, größtmögliche Dichte
der Globus verklumpt zur Region.
Hitzeschilde, chirurgische Schnitte, faules Gewebe
sprach jemand vom Krebsgeschwür der Menschheit?
Wer ermannt sich zu schneiden?
In welchem Organ und wie rasch?
Als friedliebend schon fast ein Schimpfwort war.
Wie die Wörter sich vermehren
wie die Nachrichten schrumpfen unterhalb der Wörter
wie aus Krise Krieg gemacht wird
und aus Krieg
Gewinn, Gewissen, Gegenwart
die Hochhäuser von heute sind die Ruinen von morgen
Betroffenheit klingt schon wie Besoffenheit
ein Wort aus einer vergangenen Zeit
die sich ergebende Sprache
die dem Sachzwang ergebene Sprache
die in Garben zerschossene Gegenwart
zertrümmerte Gedanken, verblendete Subjekte
Salzsäulen, im Rauch erstarrt
der Krieg ist der Vater aller
Gasmasken und Heldentenöre
Angst nein, Sprengkopf ja, Gas nein, Milzbrand ja
der blutverkrustete Schleudersitz
Über die Perspektive
»Die Welt ist voller Unruhe, alles
drunter und drüber, und noch
weiß man nichts Gewisses!«
Ödön von Horváth
Einige mächtige Männer
stehen am Horizont
verdecken die Sonne
und fragen:
Wo bleibt
eure Perspektive?
Wir sagen:
Je nachdem
wo man steht
sieht man
auf den Champs Elysées
eine Dame mit Hündchen
einen rotledernen Stiefel
den Absatz eines Stiefels
oder den Dreck daran.
Je nachdem wie man blickt
sieht man auch
Bäume von weitem.
Betrachtet
die mächtigen Äste.
Der Ast einer Kastanie
erschlug hier einen Dichter.
Geht uns aus der Sonne
dann reden wir weiter
über unsere Perspektive.
Entwurf zu einer Anthologie der Körper
Die Körper haben sich voneinander entfernt
Gefangene der herrschenden Gefühle
sind sie ihrer selbst überdrüssig geworden.
Sie schreiten zur Tat, erproben
neue Figurationen in ihrer alten Haut.
Ach, die gefangenen Finken!
Die von der Schlange besessenen Menschen!
Viele Wörter haben ihre Sprache verloren
sitzen gezügelt auf den Lippen.
In diesem Winter stockt die Kälte in den Leibern.
Jahrelang wollte ich eine Geschichte
der Körper schreiben, einen Zyklus der Bewegungen
eine Formation aus unserem nicht getanzten Ballett
in dem eines das andere einholt, flieht, umkreist.
Ein Entwurf zu einer Anthologie der Körper
spukte mir körperlos im Kopf.
Ich ging gebückt unter der Last des eigenen Anspruchs
stemmte Musterkoffer mit anatomischen Glieder-puppen.
Jahrelang suchte ich nach Bildern
für die Poren der Haut, die ruhlosen Muskeln
ich wollte ein Verzeichnis der Runzeln anlegen
der schmerzhaften Zusammenziehungen
(gestrichen aus stillen Bedenken)
ein Verzeichnis der Schweißausbrüche, Aufwallungen
von Lust (andere sprechen von ihren Energien)
ein Gedicht mit Sprüngen
das alle Bewegungen nachvollzieht
und neu erfindet einmal an einem langen Band
eine Anthologie der ungewußten Wölbungen
in Haut und Knochen
(andere sprechen von ihrer Aura)
über sichere Füße auf dem knarrenden Parkett
über einen Rücken, der in der Sonne steht.
Einige Zeilen standen immer fest
in meiner Anthologie: einmal
am Nachmittag in deinem blauen Bett, einmal mehrmals
sprachen wir über Unterdrückung.
Nicht die schnell auszusprechende jenseits
in Schulen, Büros und Fabriken
wo sich die Fäuste leichter ballen
in der Tasche als unter der Decke
am Nachmittag in deinem blauen Bett, einmal mehrmals
wir hatten die Zehen ineinander verzahnt
wie wir uns sonst die Hände geben. (Seltsam.
Die Hände geben, heißt es, während sich eigentlich
die weichen Innenseiten der Finger am nächsten sind.)
So lagen wir Haut an Haut, Hüfte an Hüfte
erschöpft im faltenlos gedämpften Licht.
Hinter der Gardine wucherten die Wünsche.
Immer haben wir unser wild wachsendes Schamhaar
mit Scham betrachtet, immer war etwas zwischen uns
die Fremdheit unserer Körper, ihre fremde Größe und Form
sie wollten nicht ineinander passen
aufeinander nebeneinander eins über das andere gebeugt
immer verstanden wir zu spät die andere Lust
die plötzlichen Kälteeinbrüche in der Nacktheit.
Manchmal schwiegen wir laut oder vergruben uns
bei lebendigem Leib. Einmal
am Nachmittag in deinem blauen Bett, einmal, mehrmals
sehr warm ausgepolstert
sprachen wir über Unterdrückung.
Wer hat dir die blauen Flecken gemacht?
Wessen Zähne haben sich in deinen Arm geschlagen?
Wer besetzt deine Träume mit unablässigen Appellen
an die Klugheit des Schwächeren, der nachgibt?
So ging es weiter bergab mit den Körpern
die ihre Tode schon ahnten
mitten im wildesten Fleisch. Vieles blieb dunkel
unbeantwortet in diesem Gedicht
wie im Schweigen der Körper, das zu verstehen
spätere Sitten uns lehren, wenn wir sie lernen wollen.
(Die Wunschträume, eingeboren zu sein
halben Herzens die halben Köpfe zu kolonialisieren.)
Stimmen von weitem, Vögel, Gebiß
die gereizte Haut entzündet Gespräche, Verlegenheiten
noch einmal ich zu sagen in einer anderen Person.
Da schrie sie schon auf: sie wolle keine Vorwände liefern.
Die Geschichte sei eine Frau
jeder wolle sich in ihr verewigen
seinen Samen hineinspritzen
wolle Bäume pflanzen, fällen, Impfstempel aufdrücken
alles Ärzte am Bett der sterbenden Körper
(Therapien, die sich im Sterben einnisten
sorgfältig katalogisiert, die Ruhe der Körper
am Feierabend, unmotiviert, macht keinen Sinn
Gymnastik der Gefühle, jedes Knacken im Gelenk
einer fachmännischen Interpretation bedürftig)
jeder wolle sich über sie wälzen, aber sie, aufgerichtet
entkomme. Sprich nur von meiner Phobie
dann spreche ich, sagte sie, von deiner Naivität
das Natürliche sei natürlich, eine auffindbare Ganzheit
auch du, schrie sie, ihre Stimme überschlug sich
ich hielt ihr den Kopf wie einer Erbrechenden
denn jeder Satz, den sie unbedacht
zögernd, erbittert, ausstoße, jetzt rannen
auch die Tränen über ihren Nasenrücken
tropften, tropften, jeder Satz
könne sich losreißen von ihr
ein Beispielsatz werden, auch in meiner Anthologie
da wälzte sie sich auf dem Teppich
in den Lehrbüchern einer geschichtslosen Geschichte
sie wolle nicht mehr
in Spiegel fallen, glitzernd, gesplittert
die eigenen Splitter gespiegelt sehen.
Es tagte schon, wolkig, heller das Licht.
Die Vögel, die Vögel, aber wir.
Mnemosine
Da tempo sono incinta
del fregolo della storia
cui nessun Dio fa crescere le natatoie
in un tempo futuro.
L’acqua sobria è ubriaca
d’ora in poi pozze, febbre
sulla nuca zelo rasato.
No, non mi perderò
le cose morte
sedia, pettine, orecchino, patente
recitano la cantilena della perdita.
E chi mi volle desiderare
nel polline della Germania
storia di un futuro bimbo nato morto
lo derido.
I signori freddi, incatenati al telefono
profondamente inquieti, ma imperturbabili
con un secolo di ritardo
gelarono in cubi lucenti d’azzurro.
Come svolazzano i fogli del calendario:
quasi fosse un ulteriore autunno.
Bocche sdentate, guarnite
di dentiere bianche come porcellana
impetrano la mia immacolata concezione
ma io porto massi con me
bugie ben confezionate, lisce come la seta
rivestite di genuine citazioni
una mano protettiva sul ventre ipocrita.
Sappiatemi: io
non volevo sapervi.
Brina e vergogna, sentiero di montagna
imperlato di cespugli di bacche di sorbo
è già così naturale
che ogni fungo atomico sognato
brucia i sognatori stessi.
La tempesta invernale sull’autostrada:
che ne usciate vivi e ridiate.
Storia, letta alla rovescia
Monete vennero voltate all’insù
l’onorevole citazione di alcuni vecchi cappelli
un ambulante con ghiaccio e limonata
entrò nella stanza come un riflesso speculare
Le ciambelle sono tutte vendute, prigioniera la pulce
ama una lettrice di smagliature
certo lei la lascia correre
disonorevole rilascio di un nuovo calendario
venduto di casa in casa con ciambelle, riscaldato da limonata
ma quale uovo, quale gente, limonata
quale fuori, quale sforzo
di scivolare fuori dove
Parola d’ordine tempo reale
La morte non è maestra.
Ha dimenticato la sua storia.
Il consueto ordine militare del suo corpo
sotto l’uniforme: una falsa conclusione.
Con la sua dura mano
– collauda videogiochi e simulatori –
utilizza pulsanti e interruttori
è proprietaria di sedili eiettabili
è un’esperta simulatrice.
Morte significa mira precisa nella croce di collimazione.
Mai parole come associazione territoriale, rampe di lancio, carrarmati
parole scritte di mio pugno
un pugno che si solleva e ricade
che si oppone, barriere anticarro, corridoio d’attacco cintura di fuoco, tappeto di mine
come esplode in fuoco e fumo la lingua
parole assemblate, massima densità
il globo si raggruma in regione.
Scudi termici, tagli chirurgici, tessuti marci
qualcuno ha parlato di cancro dell’umanità?
Chi si azzarda a tagliare?
In che organo e a che velocità?
Quando pacifico era già quasi un insulto.
Come si moltiplicano le parole
come si assottigliano le notizie sotto le parole
come dalla crisi si fa la guerra
e dalla guerra
profitto, percezione, presente
i grattacieli di oggi sono le rovine di domani
sbigottimento già suona come ottundimento
parola da un tempo passato
la lingua che si arrende
la lingua piegata alla forza maggiore
il presente crivellato nelle raffiche
pensieri fracassati, soggetti accecati
colonne di sale, impietrite nel fumo
la guerra è la madre di tutti
maschere a gas e tenori drammatici
paura no, testata sì, gas no, carbonchio sì
il sedile eiettabile incrostato di sangue
Sulla prospettiva
“Il mondo è pieno d’inquietudine, tutto
sopra e sotto, e ancora
nulla si sa per certo!”
Ödön von Horváth
Alcuni uomini potenti
in piedi all’orizzonte
coprono il sole
e chiedono:
Dov’è
la nostra prospettiva?
Diciamo:
A seconda
di dove si stia
si vede
sugli Champs Elysées
una dama con dei cagnolini
uno stivale in cuoio rosso
il tacco di uno stivale
o la sporcizia che lo riveste.
A seconda di come si guardi
si vedono anche
alberi in lontananza.
Osservate
i rami possenti.
Il ramo di un castagno
folgorò qui un poeta.
Toglietevi dal nostro sole
allora continueremo a parlare
della nostra prospettiva
Bozza per una antologia dei corpi
I corpi si sono reciprocamente allontanati
prigionieri del dominio delle emozioni
hanno provato disgusto di se stessi.
Si mettono all’opera, sperimentano
nuove figurazioni nella vecchia pelle.
Ah, i fringuelli prigionieri!
Gli uomini posseduti dal serpente!
Molte parole hanno perso la lingua
indugiano frenate sulle labbra.
Quest’inverno il gelo ristagna nei corpi.
Per anni avrei voluto scrivere una storia
dei corpi, un ciclo dei movimenti
coreografia del balletto da noi mai danzato
in cui ci si raggiunge a vicenda, si fugge, si accerchia.
La bozza per un’antologia dei corpi
mi abitava incorporea nella testa.
Andavo china sotto il peso delle mie pretese
trascinando un campionario di manichini anatomici.
Per anni cercai le immagini
per i pori della pelle, i muscoli inquieti,
volevo istituire una metafora per le rughe
per i dolorosi solchi sulla fronte
(tracciati dalla quieta riflessione)
un segno di accessi di sudore, ondate
di desiderio (altri parlano delle loro energie)
una poesia con balzi
che asseconda tutti i movimenti
e scopre un giorno su un legamento lungo
un’antologia d’ignote curvature
nelle ossa e nella pelle
(altri parlano della loro aura)
con passo risoluto sul parquet scricchiolante
sopra una schiena, che sia esposta al sole.
Alcune righe restavano le stesse
nella mia antologia: un tempo
di pomeriggio in un letto azzurro, un tempo più volte
parlammo di oppressione.
Non di quella che in breve si riassume di là
in scuole, fabbriche, uffici
dov’è più facile che i pugni si stringano
in tasca piuttosto che sotto la coperta
di pomeriggio nel tuo letto azzurro, un tempo più volte
avevamo incastrato tra loro le dita dei piedi
come facciamo dandoci la mano. (Raramente.
Dare la mano, si dice, mentre in realtà le più
vicine sono le tenere parti interne delle dita.)
Così restammo stesi pelle a pelle, fianco a fianco
stremati nella perfetta luce soffusa.
Dietro la cortina brulicavano i desideri.
Abbiamo sempre guardato con vergogna la giungla
dei nostri peli pubici, c’era sempre qualcosa tra di noi,
l’estraneità dei nostri corpi, la loro estranea forma
e dimensione, non volevano adattarsi l’uno nell’altro
uno sopra l’altro l’uno accanto all’altro l’uno chino sull’altro
capivamo sempre troppo tardi il desiderio dell’altro
il repentino raggelarsi nella nudità.
Talvolta tacevamo forte oppure ci seppellivamo
dentro il corpo vivo. Una volta
di pomeriggio nel tuo letto azzurro, un tempo, più volte
imbacuccati per bene
parlammo di oppressione.
Chi è stato a farti queste chiazze bluastre?
Chi a piantarti i denti nel braccio?
Chi tiene in scacco i tuoi sogni con appelli inesausti
alla saggezza del più debole, quello che si arrende?
Così si continuava a scivolare coi corpi
che già presentivano la morte in piena
frenesia della carne. Molto resta oscuro,
senza risposta in questa poesia
e nel silenzio dei corpi che c’insegnano a comprendere
i costumi del dopo, se abbiamo voglia di apprenderli.
(I desideri onirici di essere nativi
di colonizzare a cuor leggero teste vuote.)
Voci da lontano, uccelli, denti
la pelle titillata incendia discorsi, imbarazzi
dire io nuovamente in un’altra persona.
Allora lei già gridava: “non voglio accampare pretesti”.
C’era una volta una donna
ciascuno in lei voleva eternarsi
spruzzare in lei il suo seme, piantarci
alberi, abbattere, imprimere il timbro del vaccino
medici al capezzale dei corpi morenti
(terapie, annidate nella morte
catalogate con cura, la quiete dei corpi
nel riposo serale, immotivata, non ha alcun senso
ginnastica di sensazioni, ogni singolo schiocco
nelle giunture richiede una diagnosi professionale)
ciascuno su di lei vorrebbe rotolarsi, ma lei si raddrizza
e sottrae. Parla solo della mia fobia
poi parlo io, diceva, della tua ingenuità
che il naturale sia naturale, una possibile totalità
anche tu, gridò lei, la voce le si accavallò
io le tenevo la testa come a uno che stia vomitando
poi quella frase, che lei senza volerlo
furiosa, esasperata, espulse, ora le scorrevano
anche lacrime lungo il dorso del naso
gocciavano, gocciavano, ogni frase
poteva staccarsi da lei, diventare
frase esemplare, anche nella mia antologia
lei si rotolò sul tappeto,
nei libri di testo di una storia senza storia
non voleva più
cadere nello specchio, scintillante, frantumato
per vedere riflessi i propri frantumi.
Veniva già l’alba, velata, più chiara la luce.
Gli uccelli, gli uccelli, ma noi.
COLLANA KREIS – Poesia tedesca contemporanea
Ursula Krechel, Corpi di parole. Poesie scelte
Traduzione di Chiara De Luca
ISBN: 978-88-99274-18-4
512, € 15

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una volta scopertane l’esistenza grazie a te, approfondirò